La scelta di Apple di non inserire il caricatore e gli auricolari nella confezione del nuovo iPhone 12 per ridurre le dimensioni del packaging non è ovviamente passata inosservata. E ha creato non poche discussioni, perché se è vero che la società di Cupertino riserva al tema ambientale un’attenzione molto forte, quasi radicale (si vedano in proposito gli Environmental Report dei singoli modelli pubblicati sul sito ufficiale della compagnia o gli sforzi compiuti per alimentare i suoi data center e le sue sedi solo con energie rinnovabili), è altrettanto vero che il “carbon footprint” degli smartphone della Mela” è rilevante.

E l’ultimo melafonino non fa eccezione, perché con i suoi 70 kg di Co2 equivalente (e cioè la quantità di gas serra immessi nell’atmosfera) ha nel complesso un impatto ambientale identico a quello della versione priva di auricolari e caricatore del suo predecessore. Più nel dettaglio, l’iPhone 12 rispetta maggiormente l’ambiente nell’intero suo ciclo di vita (dove ad incidere sono sostanzialmente le emissioni generate da tutte le ricariche giornaliere per un periodo di tre o quattro anni) ma non genera meno Co2 dell’iPhone 11 in fase di produzione e di assemblaggio della componentistica elettronica. Pochi passi in avanti, insomma, quelli compiuti da Apple sulla strada che porta al traguardo dell’impatto zero per la propria filiera e i propri prodotti entro il 2030.

Valutare l’impatto ambientale di uno smartphone è un’operazione tutt’altro che semplice. Anche le cifre rese pubbliche da Apple circa la quantità di emissioni prodotte dai suoi iPhone sono di fatto delle stime, sicuramente attendibili ma pur sempre delle proiezioni. E se si volesse calcolare personalmente il “carbon footprint” del proprio telefonino? Un provider di connettività australiano, la Belong (gruppo Telstra), ha provato a rispondere a questa domanda sviluppando un’applicazione in grado di convertire il traffico dati consumato nei grammi di Co2 corrispondenti. La logica alla base dell’app è semplice: più si attivano connessioni, più aumentano i consumi di energia dell’infrastruttura della rete mobile e più si buttano di conseguenza nell’ambiente emissioni nocive. Considerando quanti dati si consumano ogni giorno fra messaggi, video e musica, viene quindi immediato pensare all’enorme impatto associabile all’attività mobile di qualche miliardo di utenti. Impatto che la Ong francese The Shift Project ha puntualmente calcolato prendendo in esame smartphone e computer, il cui utilizzo produce più sostanze nocive dell’intera industria aeronautica.

Perché si parla tanto di eco-sostenibilità a proposito di dispositivi elettronici è abbastanza facile intuirlo e i dati periodicamente pubblicati dall’European Environmental Bureau ne sono un esempio evidente. Un rapporto che risale al settembre di anno fa ci dice infatti che l’intero ciclo di vita degli smartphone europei è responsabile di 14 milioni di tonnellate di emissioni di Co2 equivalenti l’anno, tanto quante ne ha prodotte l’intera Lettonia nel 2017. E il processo di produzione dei telefonini, in modo particolare, esercita sul clima l’impatto negativo più importante fra le diverse categorie di apparecchi analizzati nello studio. Il punto chiave, secondo gli esperti, è la durata nel tempo di un dispositivo elettronico: in media uno smartphone in Europa vive tre anni, i computer portatili circa sei e le lavatrici (a cui va il titolo di prodotto più energivoro in assoluto se si considerano in consumi in fase di utilizzo) 11,4.

Ebbene, basterebbe prolungare di un anno l’attività di questi apparecchi, garantendo la possibilità di ripararli in ottemperanza alle nuove norme Ue, per evitare l’emissione di 4 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica ogni anno (l’equivalente di quanto inquinano due milioni di automobili circolanti sulle strade) da qui al 2030. Contrastare l’obsolescenza pianificata è un tema caro all’Unione Europea e chiama direttamente in causa le aziende produttrici: difficile valutare il grado di intenzionalità nell’accorciare la durata dell’elettronica e nel progettare device troppo costosi da riparare, ma è certo che la percentuale di apparecchi difettosi sostituiti dai consumatori è in costante e sensibile crescita da 15 anni a questa parte.

All’apparenza sembra un colossale paradosso ma non lo è assolutamente. Gli smartphone impattano (e in modo considerevole) sull’ambiente, ma grazie all’adozione diffusa e continuativa delle tecnologie di comunicazione mobile è stato possibile ridurre nel 2018 le emissioni di biossido di carbonio per complessive 2,1 miliardi di tonnellate e risparmiare oltre 1,4 miliardi di megawatt di energia elettrica. Ad alimentare questo circolo virtuoso, documentato in uno studio realizzato da GSMA e Carbon Trust (“The Enablement Effect: The impact of mobile communications technologies on carbon emission reductions”), sono state le soluzioni dell’Internet of Things e Machine-to-Machine e si tratta di un primo passo in avanti, secondo gli esperti, nella direzione di una vera economia decarbonizzata estesa a tutti settori, dai trasporti alle costruzioni per finire al manifatturiero.

Le tecnologie intelligenti possono fare molto, si legge ancora nello studio, ma non manca il rovescio della medaglia. E si torna ancora agli smartphone. A puntare il dito contro l’industria tecnologica è una ricerca (“Assessing ICT global emissions footprint: trends to 2040 & recommendations”) a firma della canadese McMaster University, pubblicata nel 2018, secondo cui l’impatto ambientale del settore Ict su scala globale passerà dal 3,5% atteso per il 2020 al 14% stimato per il 2040. La quota di emissioni nocive relative ai telefonini, nel dettaglio, salirà all’11% entro la fine di quest’anno (era al 4% nel 2010), per circa 125 milioni di tonnellate di Co2 immesse nell’aria; l’intero ecosistema dell’Information & Communication Technology (tra infrastrutture di rete, materiali, produzione dei device e data center) dovrebbe produrne 746 milioni all’anno. La crescita incrementale dei gas serra provenienti dal settore hi-tech, insomma, rischia di rendere del tutto inutili i tentativi di sfruttare le potenzialità di risparmio sui consumi di cui la stessa industria è capace.